- Tempo di lettura: 7'
1. Persone, processi e strumenti
Nell’articolo dedicato alla relazione tra profitto e catena del valore ho definito quest’ultima come un sistema di persone, processi e strumenti orientato alla creazione di un profitto sostenibile. Ho anche sostenuto che lo stato di salute di un’attività economica e il successo di un imprenditore risiedono proprio nella catena del valore e nella sua sostenibilità.
Persone/processi/strumenti sono una triade familiare. Sono cuoco, padella e reazione di malliard; specialista delle vendite, processo di vendita e CRM; sciatore, sci e slalom speciale; barman, mixology e shaker. Niente di nuovo: sono i tre tipi di anelli da cui la catena del valore è composta.
Tuttavia, vorrei convincerti che, nonostante appaia evidente solo in uno, il capitale umano è la radice di tutti e tre gli elementi della triade. Provo a farlo in due modi: con un esperimento mentale e con una argomentazione.
L’esperimento mentale è truculento e non scende a compromessi. L’argomentazione, invece, è più accademica e razionale. Se, come me, sei fan di Stan Lee e dell’universo Marvel, leggi il primo. Se prediligi il pensiero logico, leggi la seconda.
2. Il guanto di Thanos
Immagina di essere Thanos. Sei l’epitome del cattivo con la C maiuscola, nel mondo Marvel! Con un’inquietante pelle violacea e una passione per il violetto che non passa mai di moda, sei l’incarnazione del caos cosmico. La tua storia è un po’ come una soap opera intergalattica: sei nato su Titano, pianeta della galassia di Saturno, con la faccia da ragazzo e il cervello da genio del male. Il tuo obiettivo? Il dominio totale sull’universo, naturalmente! E per farlo, ti sei dotato di una collezione di gioielli top: le Gemme dell’Infinito. Ora, queste pietre non sono proprio la tipica decorazione per bijoux. Montate tutte insieme su un guanto controllano il tempo, lo spazio, la mente e praticamente tutto il resto!
Indossa il guanto, schiocca le dita e fai sparire tutte le persone che lavorano nella tua azienda, nel tuo ristorante o nella tua software house. Cosa succede alla catena del valore? Cosa succede al profitto sostenibile?
È un po’ come quando ti si scarica il telefono mentre guardi un reel su Instagam o ti finisce la batteria dell’auto elettrica mentre stai andando al concerto della tua band preferita. La catena del valore smette di funzionare, il valore progressivamente evapora e con esso anche il profitto sostenibile.
2. Alla ricerca della causa radice
L’esperimento mentale con il guanto di Thanos può sembrare di una banalità sconvolgente. Eppure, osservo che siamo ancora qui a costruire teorie per sostenere che bisogna “mettere le persone al centro”. Non dobbiamo mettere le persone al centro, perché sono già al centro.
Il loro capitale di competenze, qualunque esso sia, è una componente strutturale della catena del valore. Il modo in cui il capitale di competenze – mediato da emozioni, stati d’animo, interpretazioni, opinioni, intenzioni, linguaggio e così via – si trasforma in pensieri e azioni è l’energia che tiene accesa la catena del valore e che genera il profitto sostenibile. Ma non è tutto.
A ben vedere i processi sono disegnati, eseguiti, aggiustati o innovati dalle persone. La loro configurazione, il loro funzionamento e i loro risultati esistono perché le persone li trasformano da un diagramma di flusso a un meccanismo che genera – o non genera – valore. E lo stesso vale per gli strumenti. Sono progettati, realizzati, scelti, acquistati, adattati o manutenuti da persone. Le persone li trasformano gli oggetti in strumenti, cioè oggetti con un fine, un fine che è, ancora una volta, generare valore.
Se è vero che:
- il capitale umano è la causa radice della triade persone/processi/strumenti;
- persone, processi e strumenti sono la catena del valore;
- il valore si trasforma in profitto sostenibile;
concludo che il capitale umano è la causa radice del profitto sostenibile.
3. I quattro funzionamenti chiave del capitale umano
Definire il capitale umano è un’impresa teorica affascinante, ma è anche un viaggio nel regno dell’astrazione e della concettualizzazione. Quando proviamo a raccogliere sotto un’unica etichetta concetti come conoscenze, skill, comportamenti, emozioni motivazioni e valori – e magari anche sostenibilità, leadership e cambiamento – finiamo per avere in mano un costrutto così lontano dall’esperienza quotidiana da non poterlo applicare, a meno di intraprendere un altro lungo viaggio, in direzione opposta.
Per come la vedo io, è molto più utile chiedersi: che ruolo gioca il capitale umane nella creazione del valore e del profitto sostenibile? Quali sono le sue funzioni? Come, in concreto, genera il valore?
Penso si possa rispondere a queste domande complicate usando due strumenti concettuali che mi sono sempre piaciuti: il principio di Pareto e il rasoio di Occam. Il primo è riassumibile in: la maggior parte degli effetti è dovuta a un numero ristretto di cause. Il secondo lo tradurrei così: è vero che sotto una causa radice è sempre possibile trovarne un’altra, ma non bisogna moltiplicare le cause radici più del necessario. Fermiamoci al livello di ciò che possiamo osservare, misurare, controllare e cambiare.
Se, per dare una risposta alla domanda fondamentale: come in concreto il capitale umano genera valore?, applico il principio di Pareto e il rasoio di Occam, giungo alla conclusione che ci è sufficiente identificare quattro meccanismi fondamentali: performare, relazionarsi, gestire e decidere.
5. Perfomare e gestire
Se penso al contributo che le persone danno alla catena del valore mi vengono in mente due dimensioni: fare e far fare.
Compiamo azioni funzionali alla creazione del valore quando scriviamo un piano di marketing, progettiamo una sospensione, redigiamo un report, analizziamo dati, preleviamo un ricambio e lo imballiamo, sviluppiamo la funzionalità di un programma, vendiamo un paio di scarpe: queste azioni sono mattoncini che si uniscono, come in un lego, per dare forma al valore. Lo stesso accade quando coordiniamo l’area HR, gestiamo un team di designer, ci occupiamo di approvvigionamento dei materiali o della manutenzione di un sito produttivo, sviluppiamo le vendite o supervisioniamo la contabilità. Tutti noi svolgiamo task e operiamo all’interno di processi, che talvolta coordiniamo. Questo mi suggerisce l’idea che performare e gestire siano due funzioni del capitale umano che hanno una relazione diretta con la catena del valore. Inoltre, sono distinguibili, osservabili e misurabili.
Performare vuol dire attivare stati d’animo, pensieri e azioni in funzione di un risultato. Il risultato è definito dal mandato organizzativo che l’azienda elabora per un certo ruolo o funzione, cioè per un certo anello della catena del valore. Il tema della performance è ampiamente indagato da una letteratura vasta e multidisciplinare. In generale, gli autori concordano sul fatto che performare vuol dire produrre risultati – l’efficacia – e che questi ultimi siano da valutare in relazione al tempo e alle risorse investire – l’efficienza. La dimensione del tempo è centrale anche nella prospettiva della continuità, cioè della capacità di mantenere alti livelli di performance sul lungo periodo. Qui, la tenacia e l’impegno sono aspetti chiave, ma penso che da soli non bastano.
Lo sport, che spesso viene usato come metafora o fonte di ispirazione delle riflessioni sulla performance in ambito aziendale, ci insegna che buoni risultati con continuità si raggiungono grazie all’allenamento. Chi avrebbe da obiettare? Eppure, sovente si sente dire che la performance aziendale e quella sportiva differiscono proprio rispetto all’allenamento: nello sport allenamento e performance sono due momenti distinti, e gli sportivi sono pagati anche per allenarsi. Nel lavoro, al contrario, non si può sospendere la performance per allenarsi, o almeno così si crede. Le aziende storcono il naso quando devono pagare i loro dipendenti per allenarsi perché in quei momenti non “producono”. Di conseguenza, pensano che lo spazio dell’allenamento debba coincidere con la performance e a questa idea danno un nome: esperienza. Io penso che questo sia un errore molto grave e che i primi a pagarne le conseguenze siano proprio le aziende e i loro profitti.
Gestire è un tipo specifico di performance. Gestire vuol dire comprendere la catena del valore nel complesso, la posizione che occupiamo al suo interno, i processi operativi e manageriali a monte e a valle e conoscerne le condizioni di sostenibilità. Vuol dire esercitare leadership per organizzare i processi operativi, scegliere gli strumenti, strutturare i dati e le competenze. Ma vuol anche dire stare in relazioni con i nostri superiori, i nostri pari e i nostri team. Talvolta gestire vuol dire cambiare, per scelta o per necessità. Certamente implica aiutare, supportare, delegare, responsabilizzare e valutare i risultati. Più di tutto, decidere vuol dire assumersi la responsabilità di una porzione più o meno grande della catena del valore e dai cui dipende il profitto.
6. Decidere
Se la performance è l’insieme di atti e comportamenti che gli individui attivano quando devono svolgere un compito, la decisione è ciò che viene prima.
Alcuni pensano che sia un tema di inner game, cioè di ciò che accade nel mondo interiore, altri pensano che sia un tema di outer game, cioè di ciò che accade nell’interazione con l’ambiente. Io opto per qualcosa che sta nel mezzo, perché nasce nell’inner game e opera nell’outer game. Le decisioni che prendiamo, infatti, nascono da noi, dal nostro interno, ma sono anche alimentate da dati ambientali e sull’ambiente agiscono, trasformandolo, secondo alcuni, in modo irreversibile.
Decidere vuol dire esercitare autonomia e assumersi le responsabilità del nostro perimetro. Per decidere è necessario identificare I vincoli e le opportunità, i vantaggi, gli svantaggi e muoversi in modo coerente con questa analisi. Decidere è scegliere tra alternative possibili e condividere i motivi della scelta, talvolta convincere, spesso coinvolgere. É anche implementare la decisione presa, portare a compimenti gli impegni e le promesse di cui si compone e gestirne gli esiti. Talvolta, sempre più spesso, decidere è il pre-requisito dell’innovazione.
7. Relazionarsi
Il quarto e ultimo meccanismo la desumo dalla considerazione che performare, gestire e decidere sono possibili perché esistono altri essere umani che ci assegnano incarichi, a cui la nostra performance è utile, che seguono le nostre direttive e accolgono le nostre decisioni o che ci pongono domande. Performare, gestire e decidere sono costrutti relazionali, quantomeno si depotenziano fino a ridursi ai minimi termini se li tiriamo via dalla cornice dell’interazione con altri esseri umani.
Relazionarsi è prima di tutto un atto comunicativo. Pertanto, vuol dire ascoltare ed esporre, chiedere, rispondere e attivare feed-back. Nelle aziende, la relazione non è fine a stessa: è orientata a un risultato ed ha una dimensione operativa. Dunque, relazionarsi implica contribuire al lavoro comune, collaborare e fare squadra, aiutare o farsi aiutare, fare richieste e promesse. La relazione si alimenta di disponibilità, trasparenza ed empatia. Gravita intorno alla fiducia, alle emozioni e agli stati d’animo nostri e dell’altro. Soprattutto, la relazione ci interroga sulle differenze e sulle reciprocità e, talvolta, ci sollecita a gestire i conflitti individuando e valorizzando gli spazi negoziali.
- Tempo di lettura: 7'
1. Persone, processi e strumenti
Nell’articolo dedicato alla relazione tra profitto e catena del valore ho definito quest’ultima come un sistema di persone, processi e strumenti orientato alla creazione di un profitto sostenibile. Ho anche sostenuto che lo stato di salute di un’attività economica e il successo di un imprenditore risiedono proprio nella catena del valore e nella sua sostenibilità.
Persone/processi/strumenti sono una triade familiare. Sono cuoco, padella e reazione di malliard; specialista delle vendite, processo di vendita e CRM; sciatore, sci e slalom speciale; barman, mixology e shaker. Niente di nuovo: sono i tre tipi di anelli da cui la catena del valore è composta.
Tuttavia, vorrei convincerti che, nonostante appaia evidente solo in uno, il capitale umano è la radice di tutti e tre gli elementi della triade. Provo a farlo in due modi: con un esperimento mentale e con una argomentazione.
L’esperimento mentale è truculento e non scende a compromessi. L’argomentazione, invece, è più accademica e razionale. Se, come me, sei fan di Stan Lee e dell’universo Marvel, leggi il primo. Se prediligi il pensiero logico, leggi la seconda.
2. Il guanto di Thanos
Immagina di essere Thanos. Sei l’epitome del cattivo con la C maiuscola, nel mondo Marvel! Con un’inquietante pelle violacea e una passione per il violetto che non passa mai di moda, sei l’incarnazione del caos cosmico. La tua storia è un po’ come una soap opera intergalattica: sei nato su Titano, pianeta della galassia di Saturno, con la faccia da ragazzo e il cervello da genio del male. Il tuo obiettivo? Il dominio totale sull’universo, naturalmente! E per farlo, ti sei dotato di una collezione di gioielli top: le Gemme dell’Infinito. Ora, queste pietre non sono proprio la tipica decorazione per bijoux. Montate tutte insieme su un guanto controllano il tempo, lo spazio, la mente e praticamente tutto il resto!
Indossa il guanto, schiocca le dita e fai sparire tutte le persone che lavorano nella tua azienda, nel tuo ristorante o nella tua software house. Cosa succede alla catena del valore? Cosa succede al profitto sostenibile?
È un po’ come quando ti si scarica il telefono mentre guardi un reel su Instagam o ti finisce la batteria dell’auto elettrica mentre stai andando al concerto della tua band preferita. La catena del valore smette di funzionare, il valore progressivamente evapora e con esso anche il profitto sostenibile.
2. Alla ricerca della causa radice
L’esperimento mentale con il guanto di Thanos può sembrare di una banalità sconvolgente. Eppure, osservo che siamo ancora qui a costruire teorie per sostenere che bisogna “mettere le persone al centro”. Non dobbiamo mettere le persone al centro, perché sono già al centro.
Il loro capitale di competenze, qualunque esso sia, è una componente strutturale della catena del valore. Il modo in cui il capitale di competenze – mediato da emozioni, stati d’animo, interpretazioni, opinioni, intenzioni, linguaggio e così via – si trasforma in pensieri e azioni è l’energia che tiene accesa la catena del valore e che genera il profitto sostenibile. Ma non è tutto.
A ben vedere i processi sono disegnati, eseguiti, aggiustati o innovati dalle persone. La loro configurazione, il loro funzionamento e i loro risultati esistono perché le persone li trasformano da un diagramma di flusso a un meccanismo che genera – o non genera – valore. E lo stesso vale per gli strumenti. Sono progettati, realizzati, scelti, acquistati, adattati o manutenuti da persone. Le persone li trasformano gli oggetti in strumenti, cioè oggetti con un fine, un fine che è, ancora una volta, generare valore.
Se è vero che:
- il capitale umano è la causa radice della triade persone, processi e strumenti;
- persone, processi e strumenti sono la catena del valore;
- il valore si trasforma in profitto sostenibile;
concludo che il capitale umano è la causa radice del profitto sostenibile.
3. I quattro funzionamenti chiave del capitale umano
Definire il capitale umano è un’impresa teorica affascinante, ma è anche un viaggio nel regno dell’astrazione e della concettualizzazione. Quando proviamo a raccogliere sotto un’unica etichetta concetti come conoscenze, skill, comportamenti, emozioni motivazioni e valori – e magari anche sostenibilità, leadership e cambiamento – finiamo per avere in mano un costrutto così lontano dall’esperienza quotidiana da non poterlo applicare, a meno di intraprendere un altro lungo viaggio, in direzione opposta.
Per come la vedo io, è molto più utile chiedersi: che ruolo gioca il capitale umane nella creazione del valore e del profitto sostenibile? Quali sono le sue funzioni? Come, in concreto, genera il valore?
Penso si possa rispondere a queste domande complicate usando due strumenti concettuali che mi sono sempre piaciuti: il principio di Pareto e il rasoio di Occam. Il primo è riassumibile in: la maggior parte degli effetti è dovuta a un numero ristretto di cause. Il secondo lo tradurrei così: è vero che sotto una causa radice è sempre possibile trovarne un’altra, ma non bisogna moltiplicare le cause radici più del necessario. Fermiamoci al livello di ciò che possiamo osservare, misurare, controllare e cambiare.
Se, per dare una risposta alla domanda fondamentale: come in concreto il capitale umano genera valore?, applico il principio di Pareto e il rasoio di Occam, giungo alla conclusione che ci è sufficiente identificare quattro meccanismi fondamentali: performare, relazionarsi, gestire e decidere.
5. Perfomare e gestire
Se penso al contributo che le persone danno alla catena del valore mi vengono in mente due dimensioni: fare e far fare.
Compiamo azioni funzionali alla creazione del valore quando scriviamo un piano di marketing, progettiamo una sospensione, redigiamo un report, analizziamo dati, preleviamo un ricambio e lo imballiamo, sviluppiamo la funzionalità di un programma, vendiamo un paio di scarpe: queste azioni sono mattoncini che si uniscono, come in un lego, per dare forma al valore. Lo stesso accade quando coordiniamo l’area HR, gestiamo un team di designer, ci occupiamo di approvvigionamento dei materiali o della manutenzione di un sito produttivo, sviluppiamo le vendite o supervisioniamo la contabilità. Tutti noi svolgiamo task e operiamo all’interno di processi, che talvolta coordiniamo. Questo mi suggerisce l’idea che performare e gestire siano due funzioni del capitale umano che hanno una relazione diretta con la catena del valore. Inoltre, sono distinguibili, osservabili e misurabili.
Performare vuol dire attivare stati d’animo, pensieri e azioni in funzione di un risultato. Il risultato è definito dal mandato organizzativo che l’azienda elabora per un certo ruolo o funzione, cioè per un certo anello della catena del valore. Il tema della performance è ampiamente indagato da una letteratura vasta e multidisciplinare. In generale, gli autori concordano sul fatto che performare vuol dire produrre risultati – l’efficacia – e che questi ultimi siano da valutare in relazione al tempo e alle risorse investire – l’efficienza. La dimensione del tempo è centrale anche nella prospettiva della continuità, cioè della capacità di mantenere alti livelli di performance sul lungo periodo. Qui, la tenacia e l’impegno sono aspetti chiave, ma penso che da soli non bastano.
Lo sport, che spesso viene usato come metafora o fonte di ispirazione delle riflessioni sulla performance in ambito aziendale, ci insegna che buoni risultati con continuità si raggiungono grazie all’allenamento. Chi avrebbe da obiettare? Eppure, sovente si sente dire che la performance aziendale e quella sportiva differiscono proprio rispetto all’allenamento: nello sport allenamento e performance sono due momenti distinti, e gli sportivi sono pagati anche per allenarsi. Nel lavoro, al contrario, non si può sospendere la performance per allenarsi, o almeno così si crede. Le aziende storcono il naso quando devono pagare i loro dipendenti per allenarsi perché in quei momenti non “producono”. Di conseguenza, pensano che lo spazio dell’allenamento debba coincidere con la performance e a questa idea danno un nome: esperienza. Io penso che questo sia un errore molto grave e che i primi a pagarne le conseguenze siano proprio le aziende e i loro profitti.
Gestire è un tipo specifico di performance. Gestire vuol dire comprendere la catena del valore nel complesso, la posizione che occupiamo al suo interno, i processi operativi e manageriali a monte e a valle e conoscerne le condizioni di sostenibilità. Vuol dire esercitare leadership per organizzare i processi operativi, scegliere gli strumenti, strutturare i dati e le competenze. Ma vuol anche dire stare in relazioni con i nostri superiori, i nostri pari e i nostri team. Talvolta gestire vuol dire cambiare, per scelta o per necessità. Certamente implica aiutare, supportare, delegare, responsabilizzare e valutare i risultati. Più di tutto, decidere vuol dire assumersi la responsabilità di una porzione più o meno grande della catena del valore e dai cui dipende il profitto.
6. Decidere
Se la performance è l’insieme di atti e comportamenti che gli individui attivano quando devono svolgere un compito, la decisione è ciò che viene prima.
Alcuni pensano che sia un tema di inner game, cioè di ciò che accade nel mondo interiore, altri pensano che sia un tema di outer game, cioè di ciò che accade nell’interazione con l’ambiente. Io opto per qualcosa che sta nel mezzo, perché nasce nell’inner game e opera nell’outer game. Le decisioni che prendiamo, infatti, nascono da noi, dal nostro interno, ma sono anche alimentate da dati ambientali e sull’ambiente agiscono, trasformandolo, secondo alcuni, in modo irreversibile.
Decidere vuol dire esercitare autonomia e assumersi le responsabilità del nostro perimetro. Per decidere è necessario identificare I vincoli e le opportunità, i vantaggi, gli svantaggi e muoversi in modo coerente con questa analisi. Decidere è scegliere tra alternative possibili e condividere i motivi della scelta, talvolta convincere, spesso coinvolgere. É anche implementare la decisione presa, portare a compimenti gli impegni e le promesse di cui si compone e gestirne gli esiti. Talvolta, sempre più spesso, decidere è il pre-requisito dell’innovazione.
7. Relazionarsi
Il quarto e ultimo meccanismo la desumo dalla considerazione che performare, gestire e decidere sono possibili perché esistono altri essere umani che ci assegnano incarichi, a cui la nostra performance è utile, che seguono le nostre direttive e accolgono le nostre decisioni o che ci pongono domande. Performare, gestire e decidere sono costrutti relazionali, quantomeno si depotenziano fino a ridursi ai minimi termini se li tiriamo via dalla cornice dell’interazione con altri esseri umani.
Relazionarsi è prima di tutto un atto comunicativo. Pertanto, vuol dire ascoltare ed esporre, chiedere, rispondere e attivare feed-back. Nelle aziende, la relazione non è fine a stessa: è orientata a un risultato ed ha una dimensione operativa. Dunque, relazionarsi implica contribuire al lavoro comune, collaborare e fare squadra, aiutare o farsi aiutare, fare richieste e promesse. La relazione si alimenta di disponibilità, trasparenza ed empatia. Gravita intorno alla fiducia, alle emozioni e agli stati d’animo nostri e dell’altro. Soprattutto, la relazione ci interroga sulle differenze e sulle reciprocità e, talvolta, ci sollecita a gestire i conflitti individuando e valorizzando gli spazi negoziali.