Il metodo del consulente

1. Il metodo, questo sconosciuto

Nell’articolo dedicato agli asset del lavoro come consulente, ho spiegato come il mio lavoro può essere descritto impiegando il modello teoria-metodo-risultato. Il risultato consiste nell’aiutare il cliente a generare un profitto sostenibile. La teoria collega persone, processi e strumenti – l’oggetto del mio intervento come consulente – con il risultato. Il metodo, l’oggetto di questo articolo, è ciò che impiego per formulare un piano d’azione eco-logico, trasformativo e funzionale ad accompagnare il cliente lungo la strada che lo condurrà al risultato.

Il termine metodo discende dal greco antico. Deriva dall’unione del sostantivo odos (ὁδόϚ) che vuol dire strada con la preposizione meta (μετά), che in questo caso significa con. Le due parti, unite insieme, rendono l’idea di un percorso orientato al raggiungimento di una meta. Idea peraltro presente in Aristotele e in autori successivi, incarnata nell’espressione ὁ τϱόποϚ τῆϚ μεθόδου, cioè la direzione del cammino.

2.500 anni di confronto intorno alla definizione di metodo e al suo ruolo nella costruzione della conoscenza, hanno sezionato il concetto, ne hanno confrontato l’applicazione in discipline diverse (dalla logica alla matematica, dalle scienze naturali alle scienze umane), ne hanno definito i principi e gli strumenti, spesso muovendo da posizioni opposte e giungendo a conclusioni non facilmente conciliabili tra loro. Credo che questo affascinante percorso conoscitivo vada onorato e rispettato, riservandogli un termine in uso esclusivo: metodologia, cioè discorso sul metodo. Dunque, a meno che tu non sia un epistemologo o un sociologo, non avventurarti nel racconto della metodologia che utilizzi. Piuttosto, parlaci del metodo e delle tecniche che hai applicato.

Se il metodo è la strada che scegliamo di percorrere per raggiungere una meta, qual è la meta? Semplificando, ma non così tanto, posso dire che la meta è la risposta — che ancora non abbiamo — a una domanda, una domanda così importante e urgente da non poterci permettere di improvvisare. Come mai negli ultimi due anni così tanti dipendenti hanno scelto di lasciare l’azienda? Come possiamo garantire un flusso stabile di clienti? Come posso rendere il prodotto (o il servizio) più aderente alle necessità del mercato? Chi devo assumere per il ruolo di safety engineer? Le domande delle aziende sono molte e molto diverse tra loro, eppure spesso sono in una relazione stretta con la catena del valore. Meglio, quindi, munirsi degli strumenti necessari per non perdersi lungo il percorso e per proteggersi dalle allucinazioni interpretative, soprattutto quando arrivare alla risposta costa tempo e denaro e quando dalla natura della risposta dipendono scelte organizzative importanti. È indispensabile avere un metodo ed è importante che questo metodo si adatti al terreno su cui si dipana il percorso conoscitivo, al punto di partenza — la domanda — e al punto di arrivo desiderato — la risposta..

2. Metodi e tecniche

Alcuni percorsi conoscitivi sono simili alla rete ferroviaria: hanno tragitti ben definiti, punti di passaggio chiari, tempi prevedibili (non in Italia) e costi misurabili. Altri, invece, sono simili all’esplorazione di una giungla incontaminata nel Borneo: non sono battuti e sono ricchi di insidie.

Un conto è rispondere alla domanda: qual è il profilo per età, genere, area geografica di residenza, classe sociale, status occupazionale e professione dei consumatori di cibo vegano in Italia? Spesso le aziende che si pongono questo genere di quesiti hanno a disposizione dati o li possono costruire. Il metodo si traduce nella definizione di un campione, nella somministrazione di un questionario, nell’analisi e nella rappresentazione dei dati creati apposta o già presenti. Campionare, progettare e somministrare un questionario, applicare l’analisi statistica ai dati sono tutte tecniche. Le chiamiamo così perché sono codificate come la ricetta del sontuoso bollito misto alla piemontese o del ragù alla bolognese e perché le applichiamo secondo una sequenza codificata.

Diverso è rispondere alla domanda: quali sono i tratti essenziali della cultura della mia azienda e quali sono funzionali al mantenimento del mio vantaggio competitivo? Qui, la complessità della domanda implica la complessità del metodo. Il terreno su cui ci muoviamo ci richiede di scegliere strumenti osservativi e interpretativi meno strutturati, di applicarli con maggiore sensibilità al contesto e flessibilità. Proprio per differenziarli dalle tecniche a cui accennavo poco sopra, chiamiamo metodi, in senso stretto, i tool che usiamo in questi casi. L’osservazione partecipante, le interviste discorsive, i focus group, l’ascolto attivo, la conversazione di coaching sono tutti metodi.

Metodi e tecniche costituiscono la cassetta degli attrezzi del consulente. Danno forma alla sua technè, cioè alla sua abilità pratica, acquisita attraverso l’esperienza, lo studio e l’applicazione in un determinato campo. Cassetta degli attrezzi e technè sono due concetti che mi sono sempre piaciuti perché ci tengono collegati alla dimensione operativa a concreta del nostro mestiere. Confermano anche l’idea, già espressa in un altro articolo, che a ben vedere il lavoro del consulente non è tanto diverso da quello del panettiere, dell’ingegnere meccanico, del tennista o del business coach.

2. Descrivere e spiegare

Non tutte le domande a cui vogliamo rispondere con metodo sono uguali. Talvolta la risposta alla domanda prende la forma di una descrizione. Quando descriviamo, raccontiamo la realtà per come ci appare, ne indichiamo le caratteristiche, gli attributi o le peculiarità. Se ti può essere utile, immagina di osservare il lago di Como dalla terrazza di Villa Serbelloni e dipingerlo su una tela.

  • Come si fa un piano di marketing?
  • Qual è il trend delle vendite?
  • In cosa consiste un processo di selezione per identificare il miglior candidato?
  • Quali saranno le competenze cruciali nei prossimi 20 anni?
  • Quali sono le implicazioni finanziarie di espandere il nostro mercato all’estero?


Queste sono tutte domande a cui rispondiamo descrivendo. In altri casi la risposta assume la forma di una spiegazione. Quando spieghiamo raccontiamo perché le cose stanno come stanno o come funzionano, secondo noi. Indaghiamo i meccanismi causali.

  • Quali sono le ragioni alla base del recente calo delle vendite?
  • Perché alcuni dipendenti sembrano essere meno motivati di altri?
  • Perché stiamo riscontrando ritardi nei nostri processi di produzione?


A queste domande rispondiamo spiegando. Cerchiamo cause, motivi, ragioni, fattori che fanno andare le cose come vanno. Li differenziamo sulla base del loro impatto e li organizziamo in una rappresentazione strutturata. Se ti può essere utile, immagina di osservare il lago di Como dalla terrazza di Villa Serbelloni e di chiederti come si sia formato il bacino idrico che hai davanti.  

Descrivere e spiegare sono le due attività cognitive fondamentali per un consulente e seguono percorsi metodologici molto diversi tra loro, nel cui racconto non mi addentro. Mi preme però sottolineare qual è il ruolo fondamentale giocato dai metodi e dalle tecniche, in relazione ai filtri e ai bias che contraddistinguono qualsiasi forma di conoscenza.

4. Filtri e bias: il metodo è la cura

Superiamo senza troppa esitazione l’idea che la realtà si possa descrivere per come è. Ognuno di noi la rappresenta a partire dalla sua storia passata, dalle sue conoscenze, dalle sue credenze, dalle narrazioni che lo attraversano, dalle sue emozioni, stati d’animo, e così via. Questi stessi filtri, o bias, operano anche quando proviamo a spiegare.

Questo non è un problema in sé, credo che semplicemente sia lo stato naturale delle cose. Inoltre, possiamo sempre contare su un discreto margine di sovrapposizione tra ciò che vedo io e ciò che vedi tu. Diventa, però, un problema quando quello che vedo — mentre descrivo o spiego — si deve tradurre in azioni che hanno un impatto sulla catena del valore e sulla sostenibilità del profitto. Qui, i filtri e le distorsioni possono causare danni irreparabili. Provo a convincerti con un esempio.

Immagina un’azienda di abbigliamento che ha notato un calo delle vendite nei suoi negozi, durante l’ultimo anno. Il team di management, guidato dall’istinto e dell’esperienza dei componenti senior, attribuisce il calo al fatto che i clienti preferiscono fare acquisti online, per comodità e perché vogliono scegliere tra un ampio catalogo. Basandosi su questa spiegazione, l’azienda decide di concentrare la maggior parte delle risorse di marketing e di sviluppo sul miglioramento della piattaforma di e-commerce e sulla promozione dei suoi prodotti online. Dopo un anno, i dati dicono che le vendite online non vanno secondo le aspettative. Per capire capire cosa non sta funzionando, chiedono aiuto a Michela, nota consulente aziendale. Michela analizza flussi e dati estratti dal back-end del portale di e-commerce e visita 15 store fisici dell’azienda. Scopre che il sito di e-commerce è fluido e ben costruito, mentre i negozi presentano problemi di manutenzione, approvvigionamento e luminosità. Sospetta, così, che creino un’esperienza di shopping poco invitante per i clienti e che questa sia la causa radice dell’andamento negativo delle vendite e, di riflesso, anche che della cattiva performance del sito di e-commerce. Per verificare la bontà della sua interpretazione, organizza 3 focus group con clienti che hanno acquistato nei negozi del brand negli ultimi 6 mesi e 3 focus group con clienti che, nello stesso periodo, hanno acquistato on line. I dati che raccoglie confermano l’ipotesi che la cattiva reputazione indotta dalla qualità dell’acquisto nei negozi fisici sia anche la ragione per cui i clienti sono poco propensi ad acquistare i prodotti venduti sulla piattaforma di e-commerce.

L’esempio è artefatto, non ci sono dubbi. Tuttavia, penso riproduca una dinamica molto frequente: quella in cui non si sente bisogno di un metodo perché si ritiene che la risposta sia già evidente o, comunque, a portata di mano. Osservare in modo strutturato, costruire i dati ed analizzarli, formulare ipotesi e sottoporle a verifica, tenere sotto controllo i propri bias e quelli del cliente: questo è il contributo di metodo che un bravo consulente mette sul tavolo.

5. Oltre il metodo

Nell’esempio illustrato poco sopra, la spiegazione iniziale del team di management (parziale, filtrata e distorta) ha influenzato negativamente la strategia aziendale, portando a decisioni costose e inefficaci. Al contrario, le descrizioni e le spiegazioni di Michela, ottenute attraverso un percorso di ricerca strutturato, illuminano la possibilità di un cambiamento utile. È il metodo a fare la differenza. Il metodo permette alla realtà di sottrarsi ai i nostri filtri, i nostri bias e le nostre aspettative di senso. E ciò accade per una ragione molto semplice: 2.500 anni di riflessioni su questi temi, spesso guidate da persone che ne sanno più di noi, hanno permesso al metodo di incorporare gli anticorpi.

La buona notizia è che gran parte dei metodi e delle tecniche possono essere apprese, o comunque non è difficile trovare esperti a cui affidarsi. Lo stesso vale per la sensibilità metodologica: si può affinare con la pratica. La cattiva notizia, almeno per come la penso io, è che per raggiungere il risultato, i metodi e le tecniche da soli non bastano. Servono anche una solida base teorica e tre qualità personali:

la predisposizione all’ascolto attivo

l’orientamento al futuro

la propensione all’empowement

1. Il metodo, questo sconosciuto

Nell’articolo dedicato agli asset del lavoro come consulente, ho spiegato come il mio lavoro può essere descritto impiegando il modello teoria-metodo-risultato. Il risultato consiste nell’aiutare il cliente a generare un profitto sostenibile. La teoria collega persone, processi e strumenti – l’oggetto del mio intervento come consulente – con il risultato. Il metodo, l’oggetto di questo articolo, è ciò che impiego per formulare un piano d’azione eco-logico, trasformativo e funzionale ad accompagnare il cliente lungo la strada che lo condurrà al risultato.

Il termine metodo discende dal greco antico. Deriva dall’unione del sostantivo odos (ὁδόϚ) che vuol dire strada con la preposizione meta (μετά), che in questo caso significa con. Le due parti, unite insieme, rendono l’idea di un percorso orientato al raggiungimento di una meta. Idea peraltro presente in Aristotele e in autori successivi, incarnata nell’espressione ὁ τϱόποϚ τῆϚ μεθόδου, cioè la direzione del cammino.

2.500 anni di confronto intorno alla definizione di metodo e al suo ruolo nella costruzione della conoscenza, hanno sezionato il concetto, ne hanno confrontato l’applicazione in discipline diverse (dalla logica alla matematica, dalle scienze naturali alle scienze umane), ne hanno definito i principi e gli strumenti, spesso muovendo da posizioni opposte e giungendo a conclusioni non facilmente conciliabili tra loro. Credo che questo affascinante percorso conoscitivo vada onorato e rispettato, riservandogli un termine in uso esclusivo: metodologia, cioè discorso sul metodo. Dunque, a meno che tu non sia un epistemologo o un sociologo, non avventurarti nel racconto della metodologia che utilizzi. Piuttosto, parlaci del metodo e delle tecniche che hai applicato.

Se il metodo è la strada che scegliamo di percorrere per raggiungere una meta, qual è la meta? Semplificando, ma non così tanto, posso dire che la meta è la risposta — che ancora non abbiamo — a una domanda, una domanda così importante e urgente da non poterci permettere di improvvisare. Come mai negli ultimi due anni così tanti dipendenti hanno scelto di lasciare l’azienda? Come possiamo garantire un flusso stabile di clienti? Come posso rendere il prodotto (o il servizio) più aderente alle necessità del mercato? Chi devo assumere per il ruolo di safety engineer? Le domande delle aziende sono molte e molto diverse tra loro, eppure spesso sono in una relazione stretta con la catena del valore. Meglio, quindi, munirsi degli strumenti necessari per non perdersi lungo il percorso e per proteggersi dalle allucinazioni interpretative, soprattutto quando arrivare alla risposta costa tempo e denaro e quando dalla natura della risposta dipendono scelte organizzative importanti. È indispensabile avere un metodo ed è importante che questo metodo si adatti al terreno su cui si dipana il percorso conoscitivo, al punto di partenza — la domanda — e al punto di arrivo desiderato — la risposta..

2. Metodi e tecniche

Alcuni percorsi conoscitivi sono simili alla rete ferroviaria: hanno tragitti ben definiti, punti di passaggio chiari, tempi prevedibili (non in Italia) e costi misurabili. Altri, invece, sono simili all’esplorazione di una giungla incontaminata nel Borneo: non sono battuti e sono ricchi di insidie.

Un conto è rispondere alla domanda: qual è il profilo per età, genere, area geografica di residenza, classe sociale, status occupazionale e professione dei consumatori di cibo vegano in Italia? Spesso le aziende che si pongono questo genere di quesiti hanno a disposizione dati o li possono costruire. Il metodo si traduce nella definizione di un campione, nella somministrazione di un questionario, nell’analisi e nella rappresentazione dei dati creati apposta o già presenti. Campionare, progettare e somministrare un questionario, applicare l’analisi statistica ai dati sono tutte tecniche. Le chiamiamo così perché sono codificate come la ricetta del sontuoso bollito misto alla piemontese o del ragù alla bolognese e perché le applichiamo secondo una sequenza codificata.

Diverso è rispondere alla domanda: quali sono i tratti essenziali della cultura della mia azienda e quali sono funzionali al mantenimento del mio vantaggio competitivo? Qui, la complessità della domanda implica la complessità del metodo. Il terreno su cui ci muoviamo ci richiede di scegliere strumenti osservativi e interpretativi meno strutturati, di applicarli con maggiore sensibilità al contesto e flessibilità. Proprio per differenziarli dalle tecniche a cui accennavo poco sopra, chiamiamo metodi, in senso stretto, i tool che usiamo in questi casi. L’osservazione partecipante, le interviste discorsive, i focus group, l’ascolto attivo, la conversazione di coaching sono tutti metodi.

Metodi e tecniche costituiscono la cassetta degli attrezzi del consulente. Danno forma alla sua technè, cioè alla sua abilità pratica, acquisita attraverso l’esperienza, lo studio e l’applicazione in un determinato campo. Cassetta degli attrezzi e technè sono due concetti che mi sono sempre piaciuti perché ci tengono collegati alla dimensione operativa a concreta del nostro mestiere. Confermano anche l’idea, già espressa in un altro articolo, che a ben vedere il lavoro del consulente non è tanto diverso da quello del panettiere, dell’ingegnere meccanico, del tennista o del business coach.

2. Descrivere e spiegare

Non tutte le domande a cui vogliamo rispondere con metodo sono uguali. Talvolta la risposta alla domanda prende la forma di una descrizione. Quando descriviamo, raccontiamo la realtà per come ci appare, ne indichiamo le caratteristiche, gli attributi o le peculiarità. Se ti può essere utile, immagina di osservare il lago di Como dalla terrazza di Villa Serbelloni e dipingerlo su una tela.

  • Come si fa un piano di marketing?
  • Qual è il trend delle vendite?
  • In cosa consiste un processo di selezione per identificare il miglior candidato?
  • Quali saranno le competenze cruciali nei prossimi 20 anni?
  • Quali sono le implicazioni finanziarie di espandere il nostro mercato all’estero?


Queste sono tutte domande a cui rispondiamo descrivendo. In altri casi la risposta assume la forma di una spiegazione. Quando spieghiamo raccontiamo perché le cose stanno come stanno o come funzionano, secondo noi. Indaghiamo i meccanismi causali.

  • Quali sono le ragioni alla base del recente calo delle vendite?
  • Perché alcuni dipendenti sembrano essere meno motivati di altri?
  • Perché stiamo riscontrando ritardi nei nostri processi di produzione?


A queste domande rispondiamo spiegando. Cerchiamo cause, motivi, ragioni, fattori che fanno andare le cose come vanno. Li differenziamo sulla base del loro impatto e li organizziamo in una rappresentazione strutturata. Se ti può essere utile, immagina di osservare il lago di Como dalla terrazza di Villa Serbelloni e di chiederti come si sia formato il bacino idrico che hai davanti.  

Descrivere e spiegare sono le due attività cognitive fondamentali per un consulente e seguono percorsi metodologici molto diversi tra loro, nel cui racconto non mi addentro. Mi preme però sottolineare qual è il ruolo fondamentale giocato dai metodi e dalle tecniche, in relazione ai filtri e ai bias che contraddistinguono qualsiasi forma di conoscenza.

4. Filtri e bias: il metodo è la cura

Superiamo senza troppa esitazione l’idea che la realtà si possa descrivere per come è. Ognuno di noi la rappresenta a partire dalla sua storia passata, dalle sue conoscenze, dalle sue credenze, dalle narrazioni che lo attraversano, dalle sue emozioni, stati d’animo, e così via. Questi stessi filtri, o bias, operano anche quando proviamo a spiegare.

Questo non è un problema in sé, credo che semplicemente sia lo stato naturale delle cose. Inoltre, possiamo sempre contare su un discreto margine di sovrapposizione tra ciò che vedo io e ciò che vedi tu. Diventa, però, un problema quando quello che vedo — mentre descrivo o spiego — si deve tradurre in azioni che hanno un impatto sulla catena del valore e sulla sostenibilità del profitto. Qui, i filtri e le distorsioni possono causare danni irreparabili. Provo a convincerti con un esempio.

Immagina un’azienda di abbigliamento che ha notato un calo delle vendite nei suoi negozi, durante l’ultimo anno. Il team di management, guidato dall’istinto e dell’esperienza dei componenti senior, attribuisce il calo al fatto che i clienti preferiscono fare acquisti online, per comodità e perché vogliono scegliere tra un ampio catalogo. Basandosi su questa spiegazione, l’azienda decide di concentrare la maggior parte delle risorse di marketing e di sviluppo sul miglioramento della piattaforma di e-commerce e sulla promozione dei suoi prodotti online. Dopo un anno, i dati dicono che le vendite online non vanno secondo le aspettative. Per capire capire cosa non sta funzionando, chiedono aiuto a Michela, nota consulente aziendale. Michela analizza flussi e dati estratti dal back-end del portale di e-commerce e visita 15 store fisici dell’azienda. Scopre che il sito di e-commerce è fluido e ben costruito, mentre i negozi presentano problemi di manutenzione, approvvigionamento e luminosità. Sospetta, così, che creino un’esperienza di shopping poco invitante per i clienti e che questa sia la causa radice dell’andamento negativo delle vendite e, di riflesso, anche che della cattiva performance del sito di e-commerce. Per verificare la bontà della sua interpretazione, organizza 3 focus group con clienti che hanno acquistato nei negozi del brand negli ultimi 6 mesi e 3 focus group con clienti che, nello stesso periodo, hanno acquistato on line. I dati che raccoglie confermano l’ipotesi che la cattiva reputazione indotta dalla qualità dell’acquisto nei negozi fisici sia anche la ragione per cui i clienti sono poco propensi ad acquistare i prodotti venduti sulla piattaforma di e-commerce.

L’esempio è artefatto, non ci sono dubbi. Tuttavia, penso riproduca una dinamica molto frequente: quella in cui non si sente bisogno di un metodo perché si ritiene che la risposta sia già evidente o, comunque, a portata di mano. Osservare in modo strutturato, costruire i dati ed analizzarli, formulare ipotesi e sottoporle a verifica, tenere sotto controllo i propri bias e quelli del cliente: questo è il contributo di metodo che un bravo consulente mette sul tavolo.

5. Oltre il metodo

Nell’esempio illustrato poco sopra, la spiegazione iniziale del team di management (parziale, filtrata e distorta) ha influenzato negativamente la strategia aziendale, portando a decisioni costose e inefficaci. Al contrario, le descrizioni e le spiegazioni di Michela, ottenute attraverso un percorso di ricerca strutturato, illuminano la possibilità di un cambiamento utile. È il metodo a fare la differenza. Il metodo permette alla realtà di sottrarsi ai i nostri filtri, i nostri bias e le nostre aspettative di senso. E ciò accade per una ragione molto semplice: 2.500 anni di riflessioni su questi temi, spesso guidate da persone che ne sanno più di noi, hanno permesso al metodo di incorporare gli anticorpi.

La buona notizia è che gran parte dei metodi e delle tecniche possono essere apprese, o comunque non è difficile trovare esperti a cui affidarsi. Lo stesso vale per la sensibilità metodologica: si può affinare con la pratica. La cattiva notizia, almeno per come la penso io, è che per raggiungere il risultato, i metodi e le tecniche da soli non bastano. Servono anche una solida base teorica e tre qualità personali:

la predisposizione all’ascolto attivo

l’orientamento al futuro

la propensione all’empowement

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