- Tempo di lettura: 8'
1. Emozioni, stati d'animo e intelligenza emotiva
Emozioni e stati d’animo sono parte integrante della nostra esistenza, eppure il ruolo che giocano nel flusso che va dalla performance al risultato è sistematicamente sottovalutato, in particolare nell’ambito della gestione delle cosiddette “risorse umane”. Mentre la riflessione scientifica intorno a quell’insieme di competenze cognitive e operative orientate alla performance che ricadono sotto l’etichetta di “project management” inzia all’incirca intorno agli anni ’60 del 900, occorre attendere almeno trent’anni prima di trovare un’equivalente sul tema delle emozioni e degli stati d’animo.
Credo che i lavori di John Mayer e Peter Salovey, pubblicati dal 1990 in poi, siano un ottimo punto di partenza perché ci mostrano come sia il pensiero che l’azione, diciamo la performance, contengono sempre anche informazioni emotive ed affettive e perché ci aiutano a comprendere come la performance è influenzata dalla capacità di monitorare le proprie emozioni e quelle degli altri, di discriminare tra esse e di utilizzare le informazioni che ne derivano su un piano operativo. Un tennista che intuisce che il suo avversario si trova in difficoltà emotiva e decide di metterlo sotto pressione con un gioco serrato o il capitano di una squadra che si accorge che un compagno è in crisi e si mobilita per sostenerlo e aiutarlo fanno proprio questo: decodificano informazioni emotive e le utilizzano su un piano operativo in funzione di un risultato.
Agli inizi degli anni 2000, grazie ai lavori di Daniel Goleman, il tema delle risorse emotive entra a tutti gli effetti nella riflessione sulla performance grazie al concetto di intelligenza emotiva. Ad essere sincero, ciò che più mi piace del lavoro di Goleman può essere sintetizzato in una frase che appare nell’introduzione del suo noto articolo intitolato “What Makes a Leader”, pubblicato nel 1998 su Harvard Business Review. Goleman scrive: “emotional intelligence shows itself on the job”. E come direbbe il rapper LL Cool J, mic drop.
Questa semplice constatazione – frutto, peraltro, di un solido corpo di ricerca scientifica – ha secondo me due implicazioni fondamentali. La prima sta nelle parole “show itself”: l’intelligenza emotiva si può vedere, sentire, percepire e toccare. La seconda sta nel termine “job”: l’intelligenza emotiva riguarda tutti quelli che un job ce l’hanno o aspirano ad averlo, cioè 23 milioni e 694 mila italiani, a ottobre 2023.
2. Quattro tipi di risorse emotive
Oggi, gli scaffali delle biblioteche, internet e i feed dei social network sono colmi di contenuti sul tema dell’intelligenza emotiva: occorre semplificare. Penso sia più che sufficiente ripartire dalla prima elaborazione di Goleman, che ci consegna quattro semplici (!) risorse emotive che possiamo inserire nella nostra cassetta delle competenze, indipendentemente da quale sia il nostro lavoro, la nostra professione o la natura della performance che ci contraddistingue.
Consapevolezza di sé
La capacità di riconoscere i miei stati d’animo, emozioni e drives e di comprendere il loro effetto su me stesso e sugli altri.
Autocontrollo
La capacità di controllare o indirizzare i miei impulsi e i miei stati d’animo distruttivi e la propensione a sospendere il giudizio, a riflettere prima di agire.
Motivazione
La propensione ad attivare energia e perseveranza per perseguire i miei obiettivi.
Empatia
La capacità di leggere gli stati emotivi delle altre persone e di agire di conseguenza.
3. L'empatia
Due parole sull’empatia, altro termine feticcio. Ogni volta che apro LinkedIn, sul mio feed salta fuori un meme o un posto sull’empatia, spesso associata al concetto di leadership. Si legge di “leadership empatica”, si parla di empatia come “colonna portante della managerialità”, si dichiara che “il vero leader di oggi genera empatia”. Tutto condivisibile, tranne il fatto che, per come la vedo io, l’empatia non è solo un tratto della leadership: è un processo connaturato nella struttura neuro-fisiologica degli esseri umani ed è un fattore emergente in ogni situazione in cui due esseri umani si trovano l’uno di fronte all’altro.
Proprio per via della sua centralità nelle relazioni tra persone – incluse quelle che avvengono sul luogo di lavoro – penso sia utile esplicitare il mio punto vista. Per come la vedo io, l’empatia non è la condivisione di emozioni o stati d’animo dovuta alla condivisione delle circostanze, all’imitazione o al contagio emotivo. Compassione e simpatia, che indicano rispettivamente la partecipazione alle sofferenze degli altri e l’attrazione istintiva verso gli stati d’animo dell’altro, non vanno confuse con l’empatia, a meno che non vogliamo trasformare il feticcio in concetto-con-dentro-tutto o, peggio ancora, in un mappazzone. L’empatia non ha un fondamento cognitivo: non è la capacità di comprendere gli stati d’animo di chi abbiamo davanti né il tentativo di assumere la prospettiva dell’altro.
Al contrario, l’assunto di partenza di ogni discussione sull’empatia dovrebbe essere che l’altro è, appunto, “altro”, cioè una entità distinta, unica e irripetibile e che vale lo stesso per me. Non è un caso che lo stesso Carl Rogers, uno dei padri del concetto di empatia, si preoccupi di avvisarci che se da un lato l’empatia ha a che fare con il sentire il mondo emotivo dell’altro come se fosse nostro, dall’altro dobbiamo essere consapevoli che non potremo mai sentire ciò che l’altro sente (e viceversa) e che la condizione del “come se” è cruciale. Se ce la scordiamo, ci immedesimiamo e se ci immedesimiamo sequestriamo il mondo emotivo dell’altro, sovrascrivendo il nostro. Eppure, pensiamo all’origine etimologica del termine empatia: deriva da un altro termine del greco antico che è composto da εν, dentro, e πάθος, sentimento. Proprio lì sta, secondo me, la confusione. L’empatia non è l’atto di entrare nel sentimento dell’altro. Al contrario, è l’atto di far entrare l’altro nel mio sentimento. La direzione della freccia deve essere invertita. L’empatia non è un modo di intrusione, è un moto di accoglienza. Secondo me, che le cose stiano così non ce lo dicono la filosofia, l’etica o la psicologia. E ce lo dice la neurofisiologia. Ce lo dice il funzionamento del nostro stesso corpo.
Tra la fine del 1990 e l’inizio degli anni 2000, un gruppo di neuroscienziati dell’Istituto di fisiologia dell’Università di Parma, guidato da Giacomo Rizzolatti, scopre l’esistenza della funzionalità rispecchiante dei neuroni. I neuroni si attivano sia quando un essere umano performa un’azione, sia quando osserva un altro essere umano performare la medesima azione, come se fosse egli stesso a compierla. Grazie all’impiego della risonanza magnetica per immagini, Vittorio Gallese, anch’egli neuroscienziato dell’Università di Parma, identifica questo meccanismo di rispecchiamento non solo nel centro neurologico che media il movimento volontario, ma anche nell’area corticale del nostro cervello, cioè nell’area che media le emozioni e il comportamento. Quando un individuo sperimenta stati emotivi legati al disgusto e alla sofferenza, le strutture neurali della corteccia cingolata anteriore e dell’insula si attivano, e lo stesso accade quando le osserva in un altro individuo, al punto che provare emozioni e osservarle nell’altro sono percezioni mediate dalla stessa area del nostro sistema nervoso centrale. Gallese chiama questo processo “simulazione incarnata”.
Questa intrusione nei lavori di Rizzolatti, Gallese e dei loro colleghi è certamente semplificata e, forse, maldestra: non sono un neuroscienziato, ma su YouTube trovate le registrazioni delle conferenze in cui gli autori raccontano i risultati delle loro ricerche. Spero, tuttavia, che vi convinca di tre cose:
- il nostro corpo è l’origine dell’empatia;
- l’atto empatico è un fenomeno naturale, incontrollabile intenzionalmente e connaturato al nostro codice biologico;
- l’esperienza empatica muove dall’altro, accade nel nostro corpo e ci porta a sperimentare, per dirla con Carl Rogers, il mondo emotivo dell’altro come se fosse nostro.
Quando ho studiato i contributi di Rizzolatti e Gallese mi sono posto due domande che vorrei condividere con voi. Se i meccanismi dell’empatia sono codificati nel funzionamento del cervello di tutti gli esseri umani, perché diciamo, e talvolta sperimentiamo, che esistono persone empatiche e persone non empatiche? E se accettiamo che esistano questi due gruppi di persone, come dovremmo modificare la definizione di empatia per tenere in conto che è un fatto neurologico comune a tutti, ma che non osserviamo in tutti?
4. La mia ricetta dell'empatia
Non ho una risposta, purtroppo. Ho solo un consiglio, che do a me stesso: smetti di pensare all’empatia come hai fatto fino ad ora, e iniziare a vederla come una ricetta fatta di tre ingredienti:
scegliere intenzionalmente di aprire gli occhi e osservare l’altro mentre vive i propri stati d’animo;
ascoltare il nostro corpo mentre questa osservazione gioca con i nostri neuroni specchio;
restituire all’altro il risultato di questo gioco, con rispetto e sensibilità.
Per come la vedo io, questa è l’empatia, e l’osservazione, l’ascolto, la decisione di stare nella relazione con le altre persone in modo recettivo, ne sono il fondamento. Noto che quando l’osservazione dell’altro trascina i miei neuroni specchio in un gioco di allegria, felicità ed esaltazione, non faccio fatica a restituire quello che il mio corpo sperimenta: sorrido, mi lancio in un abbraccio ed esulto anche io. Non accade lo stesso quando il vissuto emotivo che sto osservando è di colore scuro, quando emergono disagio e sofferenza. In queste situazioni spingo il mio corpo a spegnere i neuroni specchio, scegliendo di non guardare e di non ascoltare? Mi chiedo se la capacità di ascoltare empaticamente le emozioni degli altri non abbia a che fare con la capacità di ascoltare le nostre.
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1. Emozioni, stati d'animo e intelligenza emotiva
Emozioni e stati d’animo sono parte integrante della nostra esistenza, eppure il ruolo che giocano nel flusso che va dalla performance al risultato è sistematicamente sottovalutato, in particolare nell’ambito della gestione delle cosiddette “risorse umane”. Mentre la riflessione scientifica intorno a quell’insieme di competenze cognitive e operative orientate alla performance che ricadono sotto l’etichetta di “project management” inzia all’incirca intorno agli anni ’60 del 900, occorre attendere almeno trent’anni prima di trovare un’equivalente sul tema delle emozioni e degli stati d’animo.
Credo che i lavori di John Mayer e Peter Salovey, pubblicati dal 1990 in poi, siano un ottimo punto di partenza perché ci mostrano come sia il pensiero che l’azione, diciamo la performance, contengono sempre anche informazioni emotive ed affettive e perché ci aiutano a comprendere come la performance è influenzata dalla capacità di monitorare le proprie emozioni e quelle degli altri, di discriminare tra esse e di utilizzare le informazioni che ne derivano su un piano operativo. Un tennista che intuisce che il suo avversario si trova in difficoltà emotiva e decide di metterlo sotto pressione con un gioco serrato o il capitano di una squadra che si accorge che un compagno è in crisi e si mobilita per sostenerlo e aiutarlo fanno proprio questo: decodificano informazioni emotive e le utilizzano su un piano operativo in funzione di un risultato.
Agli inizi degli anni 2000, grazie ai lavori di Daniel Goleman, il tema delle risorse emotive entra a tutti gli effetti nella riflessione sulla performance grazie al concetto di intelligenza emotiva. Ad essere sincero, ciò che più mi piace del lavoro di Goleman può essere sintetizzato in una frase che appare nell’introduzione del suo noto articolo intitolato “What Makes a Leader”, pubblicato nel 1998 su Harvard Business Review. Goleman scrive: “emotional intelligence shows itself on the job”. E come direbbe il rapper LL Cool J, mic drop.
Questa semplice constatazione – frutto, peraltro, di un solido corpo di ricerca scientifica – ha secondo me due implicazioni fondamentali. La prima sta nelle parole “show itself”: l’intelligenza emotiva si può vedere, sentire, percepire e toccare. La seconda sta nel termine “job”: l’intelligenza emotiva riguarda tutti quelli che un job ce l’hanno o aspirano ad averlo, cioè 23 milioni e 694 mila italiani, a ottobre 2023.
2. Quattro tipi di risorse emotive
Oggi, gli scaffali delle biblioteche, internet e i feed dei social network sono colmi di contenuti sul tema dell’intelligenza emotiva: occorre semplificare. Penso sia più che sufficiente ripartire dalla prima elaborazione di Goleman, che ci consegna quattro semplici (!) risorse emotive che possiamo inserire nella nostra cassetta delle competenze, indipendentemente da quale sia il nostro lavoro, la nostra professione o la natura della performance che ci contraddistingue.
Consapevolezza di sé
La capacità di riconoscere i miei stati d’animo, emozioni e drives e di comprendere il loro effetto su me stesso e sugli altri.
Autocontrollo
La capacità di controllare o indirizzare i miei impulsi e i miei stati d’animo distruttivi e la propensione a sospendere il giudizio, a riflettere prima di agire.
Motivazione
La propensione ad attivare energia e perseveranza per perseguire i miei obiettivi.
Empatia
La capacità di leggere gli stati emotivi delle altre persone e di agire di conseguenza.
3. L'empatia
Due parole sull’empatia, altro termine feticcio. Ogni volta che apro LinkedIn, sul mio feed salta fuori un meme o un posto sull’empatia, spesso associata al concetto di leadership. Si legge di “leadership empatica”, si parla di empatia come “colonna portante della managerialità”, si dichiara che “il vero leader di oggi genera empatia”. Tutto condivisibile, tranne il fatto che, per come la vedo io, l’empatia non è solo un tratto della leadership: è un processo connaturato nella struttura neuro-fisiologica degli esseri umani ed è un fattore emergente in ogni situazione in cui due esseri umani si trovano l’uno di fronte all’altro.
Proprio per via della sua centralità nelle relazioni tra persone – incluse quelle che avvengono sul luogo di lavoro – penso sia utile esplicitare il mio punto vista. Per come la vedo io, l’empatia non è la condivisione di emozioni o stati d’animo dovuta alla condivisione delle circostanze, all’imitazione o al contagio emotivo. Compassione e simpatia, che indicano rispettivamente la partecipazione alle sofferenze degli altri e l’attrazione istintiva verso gli stati d’animo dell’altro, non vanno confuse con l’empatia, a meno che non vogliamo trasformare il feticcio in concetto-con-dentro-tutto o, peggio ancora, in un mappazzone. L’empatia non ha un fondamento cognitivo: non è la capacità di comprendere gli stati d’animo di chi abbiamo davanti né il tentativo di assumere la prospettiva dell’altro.
Al contrario, l’assunto di partenza di ogni discussione sull’empatia dovrebbe essere che l’altro è, appunto, “altro”, cioè una entità distinta, unica e irripetibile e che vale lo stesso per me. Non è un caso che lo stesso Carl Rogers, uno dei padri del concetto di empatia, si preoccupi di avvisarci che se da un lato l’empatia ha a che fare con il sentire il mondo emotivo dell’altro come se fosse nostro, dall’altro dobbiamo essere consapevoli che non potremo mai sentire ciò che l’altro sente (e viceversa) e che la condizione del “come se” è cruciale. Se ce la scordiamo, ci immedesimiamo e se ci immedesimiamo sequestriamo il mondo emotivo dell’altro, sovrascrivendo il nostro. Eppure, pensiamo all’origine etimologica del termine empatia: deriva da un altro termine del greco antico che è composto da εν, dentro, e πάθος, sentimento. Proprio lì sta, secondo me, la confusione. L’empatia non è l’atto di entrare nel sentimento dell’altro. Al contrario, è l’atto di far entrare l’altro nel mio sentimento. La direzione della freccia deve essere invertita. L’empatia non è un modo di intrusione, è un moto di accoglienza. Secondo me, che le cose stiano così non ce lo dicono la filosofia, l’etica o la psicologia. E ce lo dice la neurofisiologia. Ce lo dice il funzionamento del nostro stesso corpo.
Tra la fine del 1990 e l’inizio degli anni 2000, un gruppo di neuroscienziati dell’Istituto di fisiologia dell’Università di Parma, guidato da Giacomo Rizzolatti, scopre l’esistenza della funzionalità rispecchiante dei neuroni. I neuroni si attivano sia quando un essere umano performa un’azione, sia quando osserva un altro essere umano performare la medesima azione, come se fosse egli stesso a compierla. Grazie all’impiego della risonanza magnetica per immagini, Vittorio Gallese, anch’egli neuroscienziato dell’Università di Parma, identifica questo meccanismo di rispecchiamento non solo nel centro neurologico che media il movimento volontario, ma anche nell’area corticale del nostro cervello, cioè nell’area che media le emozioni e il comportamento. Quando un individuo sperimenta stati emotivi legati al disgusto e alla sofferenza, le strutture neurali della corteccia cingolata anteriore e dell’insula si attivano, e lo stesso accade quando le osserva in un altro individuo, al punto che provare emozioni e osservarle nell’altro sono percezioni mediate dalla stessa area del nostro sistema nervoso centrale. Gallese chiama questo processo “simulazione incarnata”.
Questa intrusione nei lavori di Rizzolatti, Gallese e dei loro colleghi è certamente semplificata e, forse, maldestra: non sono un neuroscienziato, ma su YouTube trovate le registrazioni delle conferenze in cui gli autori raccontano i risultati delle loro ricerche. Spero, tuttavia, che vi convinca di tre cose:
- il nostro corpo è l’origine dell’empatia;
- l’atto empatico è un fenomeno naturale, incontrollabile intenzionalmente e connaturato al nostro codice biologico;
- l’esperienza empatica muove dall’altro, accade nel nostro corpo e ci porta a sperimentare, per dirla con Carl Rogers, il mondo emotivo dell’altro come se fosse nostro.
Quando ho studiato i contributi di Rizzolatti e Gallese mi sono posto due domande che vorrei condividere con voi. Se i meccanismi dell’empatia sono codificati nel funzionamento del cervello di tutti gli esseri umani, perché diciamo, e talvolta sperimentiamo, che esistono persone empatiche e persone non empatiche? E se accettiamo che esistano questi due gruppi di persone, come dovremmo modificare la definizione di empatia per tenere in conto che è un fatto neurologico comune a tutti, ma che non osserviamo in tutti?
4. La mia ricetta dell'empatia
Non ho una risposta, purtroppo. Ho solo un consiglio, che do a me stesso: smetti di pensare all’empatia come hai fatto fino ad ora, e iniziare a vederla come una ricetta fatta di tre ingredienti:
scegliere intenzionalmente di aprire gli occhi e osservare l’altro mentre vive i propri stati d’animo;
ascoltare il nostro corpo mentre questa osservazione gioca con i nostri neuroni specchio;
restituire all’altro il risultato di questo gioco, con rispetto e sensibilità.
Per come la vedo io, questa è l’empatia, e l’osservazione, l’ascolto, la decisione di stare nella relazione con le altre persone in modo recettivo, ne sono il fondamento. Noto che quando l’osservazione dell’altro trascina i miei neuroni specchio in un gioco di allegria, felicità ed esaltazione, non faccio fatica a restituire quello che il mio corpo sperimenta: sorrido, mi lancio in un abbraccio ed esulto anche io. Non accade lo stesso quando il vissuto emotivo che sto osservando è di colore scuro, quando emergono disagio e sofferenza. In queste situazioni spingo il mio corpo a spegnere i neuroni specchio, scegliendo di non guardare e di non ascoltare? Mi chiedo se la capacità di ascoltare empaticamente le emozioni degli altri non abbia a che fare con la capacità di ascoltare le nostre.