- Tempo di lettura: 6'
1. I fondamenti del modello delle competenze
Il termine competenze è un classico esempio di parola feticcio: è oggetto di fanatico culto ed è utilizzata oltre misura, ben al di là del suo significato, spesso dato per scontato sia nei discorsi dei professionisti che in quelli dei profani. Gli innumerevoli meme che compaiono sui feed di LinkedIn e i 400 milioni di risultati che Google ci restituisce per il termine “competencies”, sono un ottimo esempio di rappresentazione feticistica del tema. Se ne parla da più di cinquant’anni perché è un aspetto cruciale del sistema produttivo – forse oggi più che mai e il termine è entrato nel lessico comune. E se ne parla sovente senza sentire la necessità di esplicitarne il significato che ha in mente chi lo sta usando. Da qui molti fraintendimenti e forse anche una riduzione dell’impatto che questo concetto ha sulle culture e sui processi delle organizzazioni orientate al profitto sostenibile.
Visto che se ne parla tanto, parliamone anche noi qui. Ti propongo di farlo con l’intento di costruire un terreno comune: raccontiamoci la nostra definizione di competenze. Se vuoi, puoi iniziare tu, condividendo la tua via mail o in una call, da qui. Intanto ti racconto la mia versione.
Il mio percorso per arrivare a una definizione di competenze parte da due assi che contraddistinguono la nostra vita di tutti i giorni. Da una parte l’asse che va dall’IO al NOI, cioè dall’individuo come entità singola, all’individuo in un sistema di relazioni con le cose e le altre persone. Dall’altra, l’asse che va dall’essere al realizzare, cioè dalla dimensione di ciò che siamo nel nostro mondo interno, alla dimensione di ciò che costruiamo al di fuori di noi stessi.
Mi rendo conto che è un punto di partenza un po’ ampio. Lo trovo è utile per sottrarre il discorso sulle competenze al dominio esclusivo del mondo delle aziende e di chi lo studia o ne parla. Per come la vedo io, qui non importa se ciò che costruiamo è un piano finanziario per gestire i debiti di un’azienda, o il prossimo risotto allo zafferano: dietro tutti i risultati c’è una performance e dietro tutte le performance c’è un pacchetto di competenze che vengono sollecitate.
È pur vero che dentro lo spazio io-noi-essere-realizzare ci sta probabilmente tutta la nostra vita, ed è un po’ troppo se l’obiettivo è arrivare a una definizione utile e praticabile. Per questo provo a ridurre la complessità. Il primo modo in cui lo faccio è prendere questi due assi e incrociarli come farebbe Cartesio, per identificare quattro aree distinte.
2. Dalla teoria alla pratica
L’area I, l’essere/io, mi sembra indicare perfettamente il nostro mondo interno. Il mondo interno me lo immagino un po’ come la tasca sulla pancia di Doreamon, il gatto blu protagonista di un manga del 1969, contemporaneo alla nascita del concetto di competenze: dentro c’è tutto. Serve, dunque, un’altra operazione di riduzione della complessità. Tra questo tutto, scelgo di focalizzare l’attenzione su qualcosa che fa parte del mondo interno e che sperimentiamo in modo concreto, fisico, reale: le emozioni e gli stati d’animo.
L’area II, quella dell’essere/noi, mi fa venire in mente il tema delle relazioni interpersonali, dentro cui siamo immersi quando la performance prende forma. Ci relazioniamo con colleghi, capi, sottoposti, amici, rivali, persone di cui ci fidiamo, persone di cui non ci fidiamo, specialisti che ci supportano, clienti, fornitori, e così via. Non possiamo immaginare una esperienza professionale senza relazioni.
Le aree III e IV, l’io/realizzare e il noi/realizzare mi rimandano all’idea di operatività, di orientamento alla realizzazione concreta di qualcosa. La prima area potrebbe essere riferita alla performance individuale: suono uno strumento, preparo una presentazione in Powerpoint, scrivo un pezzo di codice. La seconda potrebbe rimandare alla performance collettiva: il team prepara il piano di marketing, il gruppo di fornai prepara il pane e le focacce, i barman e i camerieri servono i cocktail ai tavoli, la squadra gioca la partita di basket. La soluzione però non convince: molte delle performance che di primo acchito riterremmo individuali non sono tali e quelle che senza dubbio potremmo attribuire all’individuo singolo sono talmente poche che non è utile considerarle. Di conseguenza, scelgo di collocare la dimensione operativa solo quadrante IV, quello del noi/realizzare.
Togliere l’ingombrante dimensione operativa dall’area io/realizzare ci può aiutare ad andare oltre l’ovvio e muovendo qualche passo in questa direzione riconosco che esiste qualcosa del nostro mondo interno che è più direttamente collegato con l’operatività di quando non lo siano, ad esempio, le emozioni. Penso alle informazioni sulle dosi degli ingredienti e le temperature di cottura che i panettieri usano per fare il pane, alla conoscenza del linguaggio di programmazione che serve per scrivere il codice, alla teoria e alla pratica necessarie per suonare uno strumento, alle regole, agli schemi e alle strategie di gioco che ha in testa un atleta mentre impiega il fisico per giocare una partita di basket, alle capacità creative e tecniche che vengono sollecitate quando si prepara un piano di marketing,, e così via. Penso, cioè, alla dimensione cognitiva del mondo interiore e alle risorse strettamente individuali di cui si compone.
Il risultato di questo percorso è il modello di competenze che riporto qui.
Per come la vedo io, le competenze sono
l’insieme di risorse emotive, relazionali, cognitive e operative che vengono sollecitate durante una performance.
Due cose mi piacciono di questa definizione. La prima è che separa e identifica. Propone, cioè, quattro scatole, con tanto di etichetta, dentro cui puoi collocare gli oggetti mentre metti ordine nel tema delle competenze. Sicuramente ci sono oggetti che qualcuno metterebbe in una scatola piuttosto che un’altra. Ad esempio, io metterei “essere innovativi” nella scatola delle risorse cognitive, mentre qualcun altro potrebbe vederlo come una risorsa operativa. Tutte le scelte sono legittime.
Il secondo aspetto che mi piace è che identificando e separando crea uno spazio di intervento orientato al potenziamento e l’empowerment, perché permette di focalizzare meglio i percorsi di sviluppo e di apprendimento.
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1. I fondamenti del modello delle competenze
Il termine competenze è un classico esempio di parola feticcio: è oggetto di fanatico culto ed è utilizzata oltre misura, ben al di là del suo significato, spesso dato per scontato sia nei discorsi dei professionisti che in quelli dei profani. Gli innumerevoli meme che compaiono sui feed di LinkedIn e i 400 milioni di risultati che Google ci restituisce per il termine “competencies”, sono un ottimo esempio di rappresentazione feticistica del tema. Se ne parla da più di cinquant’anni perché è un aspetto cruciale del sistema produttivo – forse oggi più che mai e il termine è entrato nel lessico comune. E se ne parla sovente senza sentire la necessità di esplicitarne il significato che ha in mente chi lo sta usando. Da qui molti fraintendimenti e forse anche una riduzione dell’impatto che questo concetto ha sulle culture e sui processi delle organizzazioni orientate al profitto sostenibile.
Visto che se ne parla tanto, parliamone anche noi qui. Ti propongo di farlo con l’intento di costruire un terreno comune: raccontiamoci la nostra definizione di competenze. Se vuoi, puoi iniziare tu, condividendo la tua via mail o in una call, da qui. Intanto ti racconto la mia versione.
Il mio percorso per arrivare a una definizione di competenze parte da due assi che contraddistinguono la nostra vita di tutti i giorni. Da una parte l’asse che va dall’IO al NOI, cioè dall’individuo come entità singola, all’individuo in un sistema di relazioni con le cose e le altre persone. Dall’altra, l’asse che va dall’essere al realizzare, cioè dalla dimensione di ciò che siamo nel nostro mondo interno, alla dimensione di ciò che costruiamo al di fuori di noi stessi.
Mi rendo conto che è un punto di partenza un po’ ampio. Lo trovo è utile per sottrarre il discorso sulle competenze al dominio esclusivo del mondo delle aziende e di chi lo studia o ne parla. Per come la vedo io, qui non importa se ciò che costruiamo è un piano finanziario per gestire i debiti di un’azienda, o il prossimo risotto allo zafferano: dietro tutti i risultati c’è una performance e dietro tutte le performance c’è un pacchetto di competenze che vengono sollecitate.
È pur vero che dentro lo spazio io-noi-essere-realizzare ci sta probabilmente tutta la nostra vita, ed è un po’ troppo se l’obiettivo è arrivare a una definizione utile e praticabile. Per questo provo a ridurre la complessità. Il primo modo in cui lo faccio è prendere questi due assi e incrociarli come farebbe Cartesio, per identificare quattro aree distinte.
2. Dalla teoria alla pratica
L’area I, l’essere/io, mi sembra indicare perfettamente il nostro mondo interno. Il mondo interno me lo immagino un po’ come la tasca sulla pancia di Doreamon, il gatto blu protagonista di un manga del 1969, contemporaneo alla nascita del concetto di competenze: dentro c’è tutto. Serve, dunque, un’altra operazione di riduzione della complessità. Tra questo tutto, scelgo di focalizzare l’attenzione su qualcosa che fa parte del mondo interno e che sperimentiamo in modo concreto, fisico, reale: le emozioni e gli stati d’animo.
L’area II, quella dell’essere/noi, mi fa venire in mente il tema delle relazioni interpersonali, dentro cui siamo immersi quando la performance prende forma. Ci relazioniamo con colleghi, capi, sottoposti, amici, rivali, persone di cui ci fidiamo, persone di cui non ci fidiamo, specialisti che ci supportano, clienti, fornitori, e così via. Non possiamo immaginare una esperienza professionale senza relazioni.
La aree III e IV, l’io/realizzare e il noi/realizzare mi rimandano all’idea di operatività, di orientamento alla realizzazione concreta di qualcosa. La prima area potrebbe essere riferita alla performance individuale: suono uno strumento, preparo una presentazione in Powerpoint, scrivo un pezzo di codice. La seconda potrebbe rimandare alla performance collettiva: il team prepara il piano di marketing, il gruppo di fornai prepara il pane e le focacce, i barman e i camerieri servono i cocktail ai tavoli, la squadra gioca la partita di basket. La soluzione però non convince: molte delle performance che di primo acchito riterremmo individuali non sono tali e quelle che senza dubbio potremmo attribuire all’individuo singolo sono talmente poche che non è utile considerarle. Di conseguenza, scelgo di collocare la dimensione operativa solo quadrante IV, quello del noi/realizzare.
Togliere l’ingombrante dimensione operativa dall’area io/realizzare ci può aiutare ad andare oltre l’ovvio e muovendo qualche passo in questa direzione riconosco che esiste qualcosa del nostro mondo interno che è più direttamente collegato con l’operatività di quando non lo siano, ad esempio, le emozioni. Penso alle informazioni sulle dosi degli ingredienti e le temperature di cottura che i panettieri usano per fare il pane, alla conoscenza del linguaggio di programmazione che serve per scrivere il codice, alla teoria e alla pratica necessarie per suonare uno strumento, alle regole, agli schemi e alle strategie di gioco che ha in testa un atleta mentre impiega il fisico per giocare una partita di basket, alle capacità creative e tecniche che vengono sollecitate quando si prepara un piano di marketing, e così via. Penso, cioè, alla dimensione cognitiva del mondo interiore e alle risorse strettamente individuali di cui si compone.
Il risultato di questo percorso è il modello di competenze che riporto qui.
Per come la vedo io, le competenze sono
l’insieme di risorse emotive, relazionali, cognitive e operative che vengono sollecitate durante una performance.
Due cose mi piacciono di questa definizione. La prima è che separa e identifica. Propone, cioè, quattro scatole, con tanto di etichetta, dentro cui puoi collocare gli oggetti mentre metti ordine nel tema delle competenze. Sicuramente ci sono oggetti che qualcuno metterebbe in una scatola piuttosto che un’altra. Ad esempio, io metterei “essere innovativi” nella scatola delle risorse cognitive, mentre qualcun altro potrebbe vederlo come una risorsa operativa. Tutte le scelte sono legittime.
Il secondo aspetto che mi piace è che identificando e separando crea uno spazio di intervento orientato al potenziamento e l’empowerment, perché permette di focalizzare meglio i percorsi di sviluppo e di apprendimento.