- Tempo di lettura: 10'
1. Un consulente, un cliente e una lavagna bianca
La stanza è silenziosa. Il pennarello nuovo scivola tra le dita del consulente, mentre si avvicina alla lavagna con passo deciso. Disegna una griglia precisa: linee dritte, spazi simmetrici. Un quadro perfetto, pronto a essere riempito di soluzioni brillanti.
“Allora,” dice con voce sicura, indicando le sezioni della griglia, “qui analizzeremo il problema, qui scriveremo le soluzioni, e qui tracceremo il piano d’azione”.
Il cliente lo osserva con un sorriso sottile. Lancia un’occhiata veloce alla lavagna, poi annuisce lentamente, ma è un annuire di chi sta già pensando oltre. Dopo un attimo di silenzio, si alza. Si avvicina alla lavagna e, senza fretta, prende il pennarello dalle mani del consulente, come fosse la cosa più naturale del mondo.
“Perfetto,” dice, con un accenno di sicurezza nella voce, mentre si gira verso la lavagna. “Ho alcune idee”.
Traccia un piccolo cerchio in un angolo e lo osserva per un momento, quasi a raccogliere i pensieri.
“Qui c’è il punto di partenza,” dice. “Ho notato che alcune cose stanno già funzionando, ma mancano di struttura. È come se servisse un filo conduttore per unirle.”
Aggiunge un’altra linea, questa volta più decisa, che attraversa la lavagna.
“E qui c’è l’obiettivo: qualcosa di più grande che voglio costruire. Il problema è che non so ancora come collegare tutto questo in modo che regga.”
Si volta verso il consulente, il pennarello ancora in mano e lo osserva pensieroso.
“Ecco l’ennesimo consulente che viene qui a pontificare”, pensa fra sé e sé.
Poi sospira e dice: “Voglio capire con lei quale strada prendere per passare dalle mie idee a qualcosa di concreto.”
Il consulente lo osserva, spiazzato. Un pensiero lo attraversa: il pennarello non doveva rimanere nelle sue mani. La sua missione non è creare, ma lasciare spazio al cliente per farlo.
Fa un respiro profondo e sorride. “Va bene,” dice. “Mi indichi da dove vuole iniziare.”
Quel pennarello passato di mano è stato più che un gesto: è il simbolo di un nuovo approccio. Lì, davanti alla lavagna, il cliente non ha bisogno di qualcuno che risolva i suoi problemi, ma di una guida per affrontarli a modo suo. Ecco dove nasce l’empowerment: nel riconoscere il cliente come protagonista del cambiamento e nel costruire, insieme, un percorso fatto di visione, consapevolezza e co-creazione.
2. L'empowerment, dalla psicologia al business
Intorno agli anni ’70, nella comunità scientifica degli psicologi americani si discute dell’efficacia degli interventi a contrasto della marginalità. Tutto sembra funzionare ragionevolmente bene fin tanto che I “soggetti fragili” si trovano in comunità, in percorsi strutturati di rehab, sotto il controllo dei servizi sociali, in generale in situazioni in cui il contesto viene reso prevedibile e controllabile. Tuttavia, i ricercatori osservano che quando questi contesti “ingegnerizzati” vengono meno, la marginalità con buona probabilità riappare. Per dirla in altri termini: la catena del valore del benessere psicofisico si indebolisce.
Alcuni studiosi reagiscono a questo dato osservativo intuendo la necessità di rendere la catena del valore del benessere meno fragile, cioè capace di funzionare al termine dei percorsi di cura o di presa in carico dell’individuo fragile. Nasce così il concetto di empowerment. Ed è sorprendente constatare come, apportando solo qualche piccola variazione lessicale (le segnalo in corsivo), il concetto stesso appare appropriato anche al dominio delle imprese:
Theoretically, the construct connects business health to cooperation and struggle to create a responsible enterprise. It compels us to think in terms of wellness versus illness, competencies versus deficits, and strength versus weakness […] capabilities instead of cataloguing risk factors […], exploring environmental influences on business problem instead of blaming […]. Empowerment-oriented interventions enhance value while they also aim to ameliorate problems, provide opportunities for participants to develop knowledge and skills and engage professionals as partners
(Empowerment. Theory, Research, and Application, D. Perkins, M. A. Zimmerman, 1995)
Detto in altri termini, i processi di empowerment delle imprese agiscono sulla componente adattiva della catena del valore, le persone. Mirano a “creare valore all’interno della catena del valore”, rendendola così meno fragile.
Per come la vedo io, l’empowerment è il processo con cui il consulente:
- aiuta il cliente a sviluppare la capacità di influire attivamente sulla propria realtà
- rafforza la fiducia del cliente nelle sue capacità
- promuove l’autonomia decisionale
- accresce la consapevolezza delle risorse che il cliente ha a disposizione
- lo incoraggia ad attivare impegno e responsabilità nella gestione delle sfide che affronta.
L’orientamento all’empowerment è, dunque, uno stato mentale, un modo di essere del consulente. Inizia quando realizza la necessità di abbandonare una visione
- tecnocratica (il consulente guida il processo decisionale perché è colui che ne sa di più
- commerciale (l’obiettivo del consulente è vendere, vendere e vendere ancora)
- paternalistica (il consulente sa cosa è meglio per il cliente)
Si alimenta quando decide di abbracciarne una nuova, capace di generare nel cliente fiducia nei propri mezzi e autonomia. Si concretizza in azioni e stili di comunicazione quando sceglie di mettere le proprie conoscenze, competenze e creatività a servizio della visione del cliente e di spenderle per svilupparne il potenziale. Ciò accade solo a condizione che il conseguimento degli obiettivi del cliente sia prioritario rispetto al successo personale del consulente o al desiderio di realizzare il massimo guadagno con il minimo sforzo.
3. Linee guida per sviluppare l’orientamento all’empowerment
L’orientamento all’empowerment si esprime nella partnership tra il consulente e il cliente. Inoltre, è ciò che trasforma il termine partnership da slogan commerciale a mindset del consulente, fino a diventare una pratica operativa e relazionale.
Come raggiungere questo risultato? Non penso esista la ricetta perfetta. Soprattutto, penso che ogni consulente abbia i propri talenti, la propria storia professionale ed esistenziale e che tutto questo sia un tesoro da valorizzare, piuttosto che da sacrificare sull’altare delle “10 regole del bravo consulente”.
Non ho una ricetta, ho alcune opinioni e le traduco in linea guida sufficientemente astratte da permettere a ciascuno di declinarle secondo il proprio stile.
Costruire una visione condivisa
Per raggiungere obiettivi significativi, il consulente aiuta il cliente a definire una direzione chiara e motivante, capace di allineare energie e intenti verso il risultato desiderato. Una visione condivisa diventa efficace quando bilancia le aspirazioni e le priorità del cliente con le esigenze del contesto in cui opera. L’ascolto attivo, le conoscenze teoriche, tecniche e il metodo permettono al consulente di decodificare il contesto e aiutare il cliente ad elaborare una visione eco-logica (cioè appropriata al contesto) e sostenibile.
Riconoscere le individualità
Ogni cliente è unico: ha le proprie risorse, esperienze e prospettive. Riconoscere questa unicità è un atto di rispetto verso la persona che abbiamo davanti. Inoltre è il primo passo per costruire un percorso che tenga conto delle sue specificità. Evitare soluzioni standardizzate non basta. Ascoltare con attenzione, osservare il contesto, comprendere quali azioni sono appropriate al contesto del cliente e quali non lo sono, valorizzare ciò che è disponibile e integrarlo con ciò che è raggiungibile rende l’azione del consulente autentica e incisiva. Inoltre, aiuta il cliente a diventare partner attivo nel proprio percorso di sviluppo.
Facilitare la consapevolezza del cliente
Perché un cliente possa sentirsi sicuro e pronto ad agire in modo autonomo, è importante accompagnarlo in un percorso che lo aiuti a riconoscere le sue risorse e capacità e che lo prepari ad affrontare gli ostacoli con competenza, determinazione e serenità. La consapevolezza si traduce anche nella capacità di individuare opzioni strategiche e operative, tradurle in scenari, piani di azione e kpi per monitorarne l’implementazione e valutarne gli effetti rispetto al punto di arrivo desiderato. Non è una garanzia di successo, perché ciò dipende anche da fattori che sono fuori dal nostro controllo. Eppure il termine con-sapevole richiama l’idea di una azione conoscitiva di sé stessi, delle proprie possibilità di azione e della realtà circostante e descrive la relazione tra un insieme pensante (il cliente) e un insieme pensato (il suo obiettivo).
Promuovere un dialogo trasformativo
Un dialogo trasformativo è più che una semplice conversazione: è uno spazio di confronto che aiuta il cliente a mettere in discussione visioni limitanti e a esplorare nuove possibilità. Questo tipo di dialogo stimola il cliente a individuare soluzioni che altrimenti non avrebbe considerato. Il consulente facilita questo processo offrendo feedback mirati e creando un ambiente che incoraggia l’espressione libera, senza giudizio. Un dialogo trasformativo si basa sulla capacità di ascoltare e restituire al cliente una visione più chiara delle sue opzioni, favorendo la motivazione ad agire. Questo approccio è utile non solo per stimolare nuove prospettive, ma anche per rafforzare la fiducia nel proprio giudizio e nella sua capacità di influire positivamente sul contesto in cui opera il cliente.
4. Spoiler alert!
Se hai letto fin qui, potresti aver notato qualcosa di interessante: queste linee guida non sono solo per i consulenti. Sono spunti preziosi anche per chi vuole affinare il proprio stile di leadership.
Pensaci a questo: riconoscere le individualità, costruire una visione condivisa, promuovere il dialogo trasformativo e facilitare la consapevolezza sono anche gli ingredienti base per guidare un team verso il successo. La leadership, come la consulenza, non consiste nell’avere le risposte, ma nel creare lo spazio in cui le persone possano trovare le proprie.
Se sei un leader (o aspiri a esserlo), cedi il tuo pennarello.
- Tempo di lettura: 10'
1. Un consulente, un cliente e una lavagna bianca
La stanza è silenziosa. Il pennarello nuovo scivola tra le dita del consulente, mentre si avvicina alla lavagna con passo deciso. Disegna una griglia precisa: linee dritte, spazi simmetrici. Un quadro perfetto, pronto a essere riempito di soluzioni brillanti.
“Allora,” dice con voce sicura, indicando le sezioni della griglia, “qui analizzeremo il problema, qui scriveremo le soluzioni, e qui tracceremo il piano d’azione”.
Il cliente lo osserva con un sorriso sottile. Lancia un’occhiata veloce alla lavagna, poi annuisce lentamente, ma è un annuire di chi sta già pensando oltre. Dopo un attimo di silenzio, si alza. Si avvicina alla lavagna e, senza fretta, prende il pennarello dalle mani del consulente, come fosse la cosa più naturale del mondo.
“Perfetto,” dice, con un accenno di sicurezza nella voce, mentre si gira verso la lavagna. “Ho alcune idee”.
Traccia un piccolo cerchio in un angolo e lo osserva per un momento, quasi a raccogliere i pensieri.
“Qui c’è il punto di partenza,” dice. “Ho notato che alcune cose stanno già funzionando, ma mancano di struttura. È come se servisse un filo conduttore per unirle.”
Aggiunge un’altra linea, questa volta più decisa, che attraversa la lavagna.
“E qui c’è l’obiettivo: qualcosa di più grande che voglio costruire. Il problema è che non so ancora come collegare tutto questo in modo che regga.”
Si volta verso il consulente, il pennarello ancora in mano e lo osserva pensieroso.
“Ecco l’ennesimo consulente che viene qui a pontificare”, pensa fra sé e sé.
Poi sospira e dice: “Voglio capire con lei quale strada prendere per passare dalle mie idee a qualcosa di concreto.”
Il consulente lo osserva, spiazzato. Un pensiero lo attraversa: il pennarello non doveva rimanere nelle sue mani. La sua missione non è creare, ma lasciare spazio al cliente per farlo.
Fa un respiro profondo e sorride. “Va bene,” dice. “Mi indichi da dove vuole iniziare.”
Quel pennarello passato di mano è stato più che un gesto: è il simbolo di un nuovo approccio. Lì, davanti alla lavagna, il cliente non ha bisogno di qualcuno che risolva i suoi problemi, ma di una guida per affrontarli a modo suo. Ecco dove nasce l’empowerment: nel riconoscere il cliente come protagonista del cambiamento e nel costruire, insieme, un percorso fatto di visione, consapevolezza e co-creazione.
2. L'empowerment, dalla psicologia al business
Intorno agli anni ’70, nella comunità scientifica degli psicologi americani si discute dell’efficacia degli interventi a contrasto della marginalità. Tutto sembra funzionare ragionevolmente bene fin tanto che I “soggetti fragili” si trovano in comunità, in percorsi strutturati di rehab, sotto il controllo dei servizi sociali, in generale in situazioni in cui il contesto viene reso prevedibile e controllabile. Tuttavia, i ricercatori osservano che quando questi contesti “ingegnerizzati” vengono meno, la marginalità con buona probabilità riappare. Per dirla in altri termini: la catena del valore del benessere psicofisico si indebolisce.
Alcuni studiosi reagiscono a questo dato osservativo intuendo la necessità di rendere la catena del valore del benessere meno fragile, cioè capace di funzionare al termine dei percorsi di cura o di presa in carico dell’individuo fragile. Nasce così il concetto di empowerment. Ed è sorprendente constatare come, apportando solo qualche piccola variazione lessicale (le segnalo in corsivo), il concetto stesso appare appropriato anche al dominio delle imprese:
Theoretically, the construct connects business health to cooperation and struggle to create a responsible enterprise. It compels us to think in terms of wellness versus illness, competencies versus deficits, and strength versus weakness […] capabilities instead of cataloguing risk factors […], exploring environmental influences on business problem instead of blaming […]. Empowerment-oriented interventions enhance value while they also aim to ameliorate problems, provide opportunities for participants to develop knowledge and skills and engage professionals as partners
(Empowerment. Theory, Research, and Application, D. Perkins, M. A. Zimmerman, 1995)
Detto in altri termini, i processi di empowerment delle imprese agiscono sulla componente adattiva della catena del valore, le persone. Mirano a “creare valore all’interno della catena del valore”, rendendola così meno fragile.
Per come la vedo io, l’empowerment è il processo con cui il consulente:
- aiuta il cliente a sviluppare la capacità di influire attivamente sulla propria realtà
- rafforza la fiducia del cliente nelle sue capacità
- promuove l’autonomia decisionale
- accresce la consapevolezza delle risorse che il cliente ha a disposizione
- lo incoraggia ad attivare impegno e responsabilità nella gestione delle sfide che affronta.
L’orientamento all’empowerment è, dunque, uno stato mentale, un modo di essere del consulente. Inizia quando realizza la necessità di abbandonare una visione
- tecnocratica (il consulente guida il processo decisionale perché è colui che ne sa di più
- commerciale (l’obiettivo del consulente è vendere, vendere e vendere ancora)
- paternalistica (il consulente sa cosa è meglio per il cliente)
Si alimenta quando decide di abbracciarne una nuova, capace di generare nel cliente fiducia nei propri mezzi e autonomia. Si concretizza in azioni e stili di comunicazione quando sceglie di mettere le proprie conoscenze, competenze e creatività a servizio della visione del cliente e di spenderle per svilupparne il potenziale. Ciò accade solo a condizione che il conseguimento degli obiettivi del cliente sia prioritario rispetto al successo personale del consulente o al desiderio di realizzare il massimo guadagno con il minimo sforzo.
3. Linee guida per sviluppare l’orientamento all’empowerment
L’orientamento all’empowerment si esprime nella partnership tra il consulente e il cliente. Inoltre, è ciò che trasforma il termine partnership da slogan commerciale a mindset del consulente, fino a diventare una pratica operativa e relazionale.
Come raggiungere questo risultato? Non penso esista la ricetta perfetta. Soprattutto, penso che ogni consulente abbia i propri talenti, la propria storia professionale ed esistenziale e che tutto questo sia un tesoro da valorizzare, piuttosto che da sacrificare sull’altare delle “10 regole del bravo consulente”.
Non ho una ricetta, ho alcune opinioni e le traduco in linea guida sufficientemente astratte da permettere a ciascuno di declinarle secondo il proprio stile.
Costruire una visione condivisa
Per raggiungere obiettivi significativi, il consulente aiuta il cliente a definire una direzione chiara e motivante, capace di allineare energie e intenti verso il risultato desiderato. Una visione condivisa diventa efficace quando bilancia le aspirazioni e le priorità del cliente con le esigenze del contesto in cui opera. L’ascolto attivo, le conoscenze teoriche, tecniche e il metodo permettono al consulente di decodificare il contesto e aiutare il cliente ad elaborare una visione eco-logica (cioè appropriata al contesto) e sostenibile.
Riconoscere le individualità
Ogni cliente è unico: ha le proprie risorse, esperienze e prospettive. Riconoscere questa unicità è un atto di rispetto verso la persona che abbiamo davanti. Inoltre è il primo passo per costruire un percorso che tenga conto delle sue specificità. Evitare soluzioni standardizzate non basta. Ascoltare con attenzione, osservare il contesto, comprendere quali azioni sono appropriate al contesto del cliente e quali non lo sono, valorizzare ciò che è disponibile e integrarlo con ciò che è raggiungibile rende l’azione del consulente autentica e incisiva. Inoltre, aiuta il cliente a diventare partner attivo nel proprio percorso di sviluppo.
Facilitare la consapevolezza del cliente
Perché un cliente possa sentirsi sicuro e pronto ad agire in modo autonomo, è importante accompagnarlo in un percorso che lo aiuti a riconoscere le sue risorse e capacità e che lo prepari ad affrontare gli ostacoli con competenza, determinazione e serenità. La consapevolezza si traduce anche nella capacità di individuare opzioni strategiche e operative, tradurle in scenari, piani di azione e kpi per monitorarne l’implementazione e valutarne gli effetti rispetto al punto di arrivo desiderato. Non è una garanzia di successo, perché ciò dipende anche da fattori che sono fuori dal nostro controllo. Eppure il termine con-sapevole richiama l’idea di una azione conoscitiva di sé stessi, delle proprie possibilità di azione e della realtà circostante e descrive la relazione tra un insieme pensante (il cliente) e un insieme pensato (il suo obiettivo).
Promuovere un dialogo trasformativo
Un dialogo trasformativo è più che una semplice conversazione: è uno spazio di confronto che aiuta il cliente a mettere in discussione visioni limitanti e a esplorare nuove possibilità. Questo tipo di dialogo stimola il cliente a individuare soluzioni che altrimenti non avrebbe considerato. Il consulente facilita questo processo offrendo feedback mirati e creando un ambiente che incoraggia l’espressione libera, senza giudizio. Un dialogo trasformativo si basa sulla capacità di ascoltare e restituire al cliente una visione più chiara delle sue opzioni, favorendo la motivazione ad agire. Questo approccio è utile non solo per stimolare nuove prospettive, ma anche per rafforzare la fiducia nel proprio giudizio e nella sua capacità di influire positivamente sul contesto in cui opera il cliente.
4. Spoiler alert!
Se hai letto fin qui, potresti aver notato qualcosa di interessante: queste linee guida non sono solo per i consulenti. Sono spunti preziosi anche per chi vuole affinare il proprio stile di leadership.
Pensaci a questo: riconoscere le individualità, costruire una visione condivisa, promuovere il dialogo trasformativo e facilitare la consapevolezza sono anche gli ingredienti base per guidare un team verso il successo. La leadership, come la consulenza, non consiste nell’avere le risposte, ma nel creare lo spazio in cui le persone possano trovare le proprie.
Se sei un leader (o aspiri a esserlo), cedi il tuo pennarello.